Carezze

Si può vivere anche attraverso i ricordi altrui. Non è vita in senso stretto. Ma l’immaginazione fa il resto e ti trasporta lì dove non hai mai vissuto. A me è successo così – e succede ancora – con i racconti delle mie origini. Oggi vi racconto di mia nonna, di quello che me n’è parso nei pochi anni con lei, di quello che mi hanno raccontato. Di quello che ho immaginato.

Che non facesse carezze era risaputo. E quelle poche volte che ci provava era difficile non assimilarle ad una lingua di vacca che lecca in preda ad una improbabile dimostrazione di affetto. Aveva mani pesanti e callose, quelle di chi nella vita ha più lavorato che respirato. O forse, le mani di chi ha più lavorato che dato affetto.
Rose aveva perso il marito in gioventù dopo soli sette anni di matrimonio (peraltro, due dei quali Enrique li aveva passati in carcere per abigeato), tre figli ed una serie innumerevole di altre sventure che erano sempre state tramandate così, sotto la voce altre sventure e nessuno si era mai premurato di chiedere chiarimenti. Per lui aveva ‘restituito i regali prenuziali’ come si conveniva all’epoca mandando a monte un altro matrimonio già bell’e combinato con un uomo di buona famiglia, meno piacente di Enrique ma non per questo non piacente. E chissà come sarebbe stata la sua vita se avesse lasciato le cose al posto loro. Eppure pare che gli stivali alti di quel ‘forestiero’ (uomo di un paese diverso dal proprio – ndr) non fossero restati indifferenti agli occhi di Rose, come anche il calesse, la chioma bionda e l’iride azzurra. E questi tratti somatici li avrebbero ereditati i tre frutti del loro amore. Solo quelli però. Alla morte l’eredità fu parca: sebbene di famiglia di proprietari terrieri, Enrique aveva otto fratelli così che a Rose rimase ben poco. Quei pochi appezzamenti di terreno che ricevette, li vendette a prezzo stracciato all’indomani del funerale e ritornò nel suo paese natale che aveva lasciato per seguire Enrique nelle campagne di quello di origine di lui. Perciò niente calesse, niente stivali e niente terreni. La vita che aveva sognato aveva avuto troppo poco tempo per prender forma. Sarebbero rimasti pochi ricordi addirittura. Quei pochi, modificati di bocca in bocca dall’enfasi del narratore che (chiunque fosse) avrebbe edulcorato i racconti ricordando la bellezza e la bontà di un uomo troppo sfortunato. Sarebbero rimasti una masseria, tanti cugini nelle feste raccomandate, un suocero senza una gamba ma con una seconda moglie, la sveglia al canto del gallo e il calare del sole come segnale per andare a letto. 
Il rientro al borgo originario non fu dei migliori. La vecchia casa era stretta per quattro. Ai quattro poi, si aggiunse la madre cieca di Rose, Phillie. Una donna severa nata a metà dell’Ottocento anche lei incapace di manifestazioni d’affetto. Ben presto la gestione familiare divenne complicata. Rose non seppe conciliare il suo ruolo di madre con quello di figlia e con quello di padre-sostituto. Su suggerimento di Carmen, sua sorella, decise perché il collegio per orfani si occupasse dei figli mentre lei avrebbe continuato a lavorare per il sostentamento di tutti. Dalla centrale del latte si spostò a lavorare al lebbrosario. Macinò kilometri e kilometri in bicicletta, le notti insonni non furono poche, cercò di garantire ai tre figli il necessario seppur a distanza, invecchiò con incalzante velocità.
Se le cose non avessero lasciato il posto loro, forse i figli non avrebbero studiato e sarebbero rimasti legati alla campagna e alla masseria, non si sarebbero affermati e avrebbero avuto figli e mogli diverse da quelli che effettivamente ebbero. Chissà. Eppure le cose lasciarono il loro posto. Con l’effetto dilagante che si può immaginare e la vita di Rose prese la forma di un gran casino. La domanda che aleggiò negli anni dell’esistenza dei tre figli chiedeva se l’istruzione poteva valere la mancanza di affetto dell’unico genitore rimasto. Perché l’affetto mancò. Per forza di cose. Quella ulteriore, poi, chiedeva se l’affetto di Rose fosse stato dimostrato con il suo tanto lavorare per farli sopravvivere (anche se azzarderei che l’idea era quella di farli vivere, più che sopravvivere). Ciascuno dei tre fratelli si rispose diversamente. Annie, una di loro, avrebbe perdonato la madre solo sulla tomba dopo anni di rancori e litigi pentendosi di non aver capito prima. 

Che non facesse carezze era risaputo, appunto. Ma col tempo capimmo che non aveva mai imparato a farne oltre che a riceverne. Aveva creato una corazza anti-intemperie della vita e aveva lottato e lavorato per resistere. Eppure non aveva mai perso il sorriso. L’incredibile forza di Rose era il regalo più grande che tutti noi avessimo potuto ricevere. Ma anche questo lo avremmo inteso troppo tardi. Nessuno la ricordò per le sventure, a differenza di Enrique. Fu ricordata per l’ironia, per il sarcasmo, per la sagacia per la capacità e la voglia di stare con gli altri. Nonostante tutto. 
E sì, fu ricordata per la sua totale incapacità di fare carezze ma nessuno dubitò mai che avesse un cuore grande al di lá di quelle.

Pubblicato da estikairos

È sempre il momento giusto per l'anima.

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