Il Granchio

“La verità è che non puoi insegnare ad un gambero a camminar diritto, Fede”. Aveva appena tirato fuori Aristofane. La conversazione stava per trasformarsi in seria. Era la verità, ad ogni modo. Se non fosse stato che la frase parlava, giustamente, di granchi. Non glielo dissi però. Ci riflettei su e basta e per un po’ le parole di Elena mi fecero una sorda compagnia. Un ronzio in un ovattato sottofondo. O forse i miei pensieri stavano urlando. È che, essere incazzata così mi era capitato rare volte. Forse solo una ulteriore, pochi anni prima nel centro di Taranto. Peccato però che la rabbia di quella volta mi avesse portata a tirare uno schiaffo in piena faccia e tante scuse per evitare una denuncia. Al pensiero sogghignai. “Fede ti stai isolando. Proprio come quando mangi…” (Aveva ragione anche su quello: quando mangiavo tendevo ad assentarmi con la mente ed essere di scarsa compagnia) “…cos’hai?”. D’improvviso tolsi la sordina alla sua voce perché, a giudicare dall’intonazione dell’ultima frase, capii che mi toccava rispondere. “Niente Ele. Sono troppo delusa a dirla tutta.” Ero riuscita a capire la domanda in extremis e a darle una risposta valida senza chiedere di ripetere. Lo avrebbe odiato. “Sono in modalità mutismo selettivo”, proseguii. “Tu sbagli, figlia mia!”. Parole, ancora parole. Ero stanca di parlare di quella storia. Non facevamo altro da mesi. Sordina di nuovo. Blaterò qualcosa su quello che avrebbe dovuto essere il mio comportamento, su cosa sarebbe stato giusto che io facessi. La verità è che non si può insegnare ad un granchio a camminare diritto. E lo aveva detto lei poco prima, anche se aveva tirato in ballo un povero gambero. Che senso aveva parlarne oltre? Poi si svegliò. O meglio, cominciò a riascoltare le mie parole troppo presa che era a dire le sue. Elena era fatta così. Le piaceva essere ascoltata. Le piaceva catturare la piazza e l’attenzione. Anzi, l’attenzione della piazza. Ad ascoltare era brava, ma resisteva poco. Lo faceva per vanità. Perché dopo aver ascoltato avrebbe dovuto ascoltarsi nel dispensare i più (in)utili consigli. L’in in parentesi è dovuto al fatto che in sé i consigli andavano bene ma avevano il grande difetto di essere validi sulla carta e poco inerenti alla realtà. Si svegliò, dicevo. “Scusami ma il mutismo selettivo lo attui con me?”. Era l’unica interlocutrice. Aveva ragione. Maledetto inconscio che mi aveva fatto dire quella frase. Via all’arrampicata sugli specchi. “No Ele. Parlavo del fatto che sono in quella modalità. Me la porto dietro da ieri sera. Non sarei qui con te sennò! Dicevi? Mi stava interessando…” Mentii spudoratamente e rimisi la sordina. La mossa del “mi stava interessando” era servita solo ad soddisfare la sua vanità. Non tardò a riprendere il discorso. “Fede però sul serio non voglio vederti così”. “Ele non so che dirti! Davvero. Quando le persone mi deludono mi chiudo a riccio e penso molto. Mi conosci da vent’anni oramai. Sai che sono fatta così!”. Asserì poi che dovevo reagire, che ero sempre stata della politica della positività e del bicchiere mezzo pieno, che non mi riconosceva. Eccetera, eccetera. Era finita una amicizia storica per me. Non avevo niente per cui gioire e nulla per cui reagire. Ne prendevo atto. Prendevo atto del fatto che le persone non le conoscerai mai fino in fondo, che l’età anagrafica delle amicizie non è indice della loro solidità (un po’ come per gli uomini con la maturità. Ma questa è un’altra storia). Prendevo atto del fatto che Elena parlava un sacco ma che le volevo bene anche per quello perché compensava i miei silenzi. E, anche grazie a lei, che parlava d’altro però, prendevo atto davanti a quel caffè ormai freddo che i granchi camminano all’indietro. Incontrovertibilmente.

Pubblicato da estikairos

È sempre il momento giusto per l'anima.

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